La
gloria morale del Signore Gesù Cristo
«Quando qualcuno offrirà all’Eterno un’oblazione, la sua offerta sarà di fior di farina, su cui verserà dell’olio, e vi aggiungerà dell’incenso. La porterà ai sacerdoti figli d’Aaronne; il sacerdote prenderà una manciata piena del fior di farina spruzzato d’olio, con tutto l’incenso, e farà bruciare ogni cosa sull’altare, come ricordo. Questo è un sacrificio di profumo soave, consumato dal fuoco per l’Eterno». Levitico 2:1-2
L’oggetto
di cui si tratta in questa meditazione è la gloria morale di Gesù,
od in altri termini il carattere del Signore come uomo. Tutto quello
che c’era in Lui salì a Dio come un sacrificio di odor soave: ogni
Sua espressione, per quanta piccola si fosse, e a qualsiasi
circostanza andasse accompagnata, si mostrò sempre come un
sacrificio di profumo accettevole a Dio. In Lui, ed in Lui soltanto,
l’uomo fu riconciliato con Dio. Per Lui Dio trovò ancora il Suo
compiacimento nell’uomo; e ciò in un modo più vantaggioso, poiché
in Gesù l’uomo è di gran lunga più aggradevole a Dio di quanto
lo potesse essere in un’eternità d’innocenza adamitica.
Quantunque
io sia convinto che nella meditazione proposta non mi riesca di
mettere al chiaro se non una piccolissima parte d’un soggetto cosi
degno d’ammirazione, spero però di risvegliare in altre anime
degli utili pensieri, il che in ogni modo sarà sempre una grande
benedizione.
È
dunque la manifestazione del
Signore come Dio e uomo ad un tempo in un Cristo
che io desidero presentare ai miei lettori. Parlerò anche
dell’opera Sua,
cioè il servizio delle sofferenze e dello spargimento del Suo
sangue, per il quale la riconcilazione è stata compiuta ed è adesso
predicata per l’accettazione e la gioia della fede.
2. Tre aspetti della gloria del Signore Gesù
La
gloria del Signore Gesù può essere considerata sotto tre aspetti :
quanto alla Sua persona fisica, quanto alla Sua dignità ufficiale, e
quanto al Suo carattere. La gloria della Sua persona fu sempre tenuta
nascosta, eccetto quando la fede sapeva scoprirla, o quando le
circostanze ne necessitavano la rivelazione. Parimenti per quanto
rifletteva alla Sua dignità ufficiale: Ei la teneva velata, poiché
andava di luogo in luogo, né come il Figlio di Dio venendo dal seno
del Padre, né come il figlio di Davide rivestito d’autorità
reale. Questi due aspetti della Sua gloria restavano per lo più
nascosti durante le Sue peregrinazioni fra le differenti circostanze
della vita quotidiana; ma la Sua gloria morale non poteva giammai
rimaner nascosta. Egli non poteva annullare, neanche in minima parte,
questa Sua perfezione, poiché questa Lo caratterizzava in modo
speciale, mostrando veramente ciò che Egli era. L’eccellenza di
questa gloria si mostrava persino troppo abbagliante per l’occhio
umano; e l’uomo si sentiva del continuo giudicato per essa. Ma che
l’uomo potesse sopportarla o no, essa risplendeva con i suoi raggi
in ogni direzione; ed ora illumina ogni pagina dei quattro Evangeli,
nello stesso modo come un tempo illuminava le vie per le quali il
Signore passava.
Qualcuno
disse del Signore Gesù che la Sua umanità sia stata affatto
naturale nel suo sviluppo; quest’osservazione è molto bella e
vera, ed il secondo capitolo di Luca basterebbe per togliere ogni
dubbio a tale riguardo. In Gesù non vi fu nessuno sviluppo di
persona che non fosse stato naturale; Egli progredì in tutti i modi
e con perfetta regolarità; la sapienza crebbe in Lui nella stessa
misura con cui crebbero la Sua età e statura. Da fanciullo diventò
uomo; e come tale, essendo l’uomo di Dio in questo mondo,
testimoniò che le opere di esso sono malvage, ed il mondo Lo odiò;
ma come fanciullo (un fanciullo secondo il cuor di Dio) Egli fu
soggetto ai Suoi genitori e sottomesso alla legge in modo perfetto;
così Egli crebbe ed avanzò in grazia davanti a Dio e agli uomini.
Ma
quantunque, come abbiamo visto, vi fossero stati dei progressi in
Lui, pure non si scorse in Lui né imperfezione di sorta, né cattiva
inclinazione, né trasgressione alcuna; ed ecco ciò che Lo distingue
da tutti gli altri uomini. Di Maria, Sua madre, ci viene detto che
ella riteneva nel cuor suo tutte le parole che Gesù diceva; ma con
tutto ciò vediamo che l’anima sua è turbata da inquietudini e
circondata persino di tenebre, di modo che il Signore è costretto di
dirle :«Perché mi avete cercato?» (Luca 2:49) In Gesù, invece,
ogni progresso prende sempre la stessa forma di bellezza morale, ed
il Suo accrescimento è regolare come deve essere in ogni uomo.
Aggiungo inoltre che come la Sua umanità era in tutto naturale nel
suo sviluppo, così il Suo carattere si mostrava in tutte le sue
espressioni come essendo affatto umano. Tutto ciò che rivelava
questo carattere era, per così esprimermi, particolare all’uomo.
Egli
era «l’albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo
frutto nella sua stagione» (Salmo 1:3). Tutte le cose non sono belle
che nel loro proprio tempo; così la gloria morale del «fanciullo
Gesù» sfoggiò nei Suoi giorni e tra la Sua generazione ed allorché
il fanciullo diventò uomo, la medesima gloria si manifestò sotto
altre forme. Gesù sapeva quando doveva soddisfare ad un diritto che
Sua madre sosteneva; sapeva quando era il momento di opporvisi quando
ella sollevava pretese ingiustificate; e sapeva inoltre sottomettersi
ai bisogni delle circostanze, quand’anche la madre Sua non
accampasse nessuna pretesa (Luca 2:51, 3:21, Giovanni 19:27). Ovunque
noi Lo seguiamo, troviamo lo stesso tratto di perfezione nel
giudicare e nell’agire. Egli ha conosciuto il Getsemane a suo tempo
e secondo il suo vero valore, come innanzi aveva conosciuto il monte
santo a suo tempo; conosceva il pozzo di Sichar, ed apprese la via
che Lo condusse a Gerusalemme l’ultima volta. Egli passò per tutti
i luoghi e non schivò nessuna via; ed il Suo cammino fu sempre in
accordo con il Suo carattere, la cui equanimità si manifestava ancor
più in quelle occasioni, dove si richiedeva maggior forza morale.
Allorché
si trattava della profanazione della casa del Padre Suo, si
adempirono in Lui le parole del Salmista: «mi divora lo zelo per la
tua casa»; ed allorché si tratta d’un vituperio che Gli viene
fatto dai Samaritani Egli sopporta tutto e prosegue il Suo cammino.
Tutto
era perfetto in Lui, sia nelle combinazioni delle
Sue virtù, come nel opportuno momento delle
loro manifestazioni. Egli pianse alla tomba di Lazzaro, quantunque vi
portasse con Se la vita; Colui che poteva dire: «Io sono la
risurrezione e la vita», versò delle lacrime come un semplice
mortale. La divina potenza che c’era in Lui non impediva lo
sviluppo e la manifestazione delle simpatie umane.
La
fusione di queste eccelse virtù, mette appunto alla luce la Sua
gloria morale. Secondo l’espressione apostolica, Gesù sapeva
«vivere nella povertà [o essere abbassato] e anche
nell’abbondanza»; sapeva, se è lecito così esprimersi, usare dei
tempi di abbondanza come pure di quelli di scarsità, poiché
passando per questa vita, Egli prese conoscenza di tutte e due le
situazioni.
Così
Egli fu introdotto per un momento nella Sua stupenda gloria sulla
montagna della trasfigurazione. In quel luogo Egli apparve in quella
maestà e dignità che Gli erano proprie; il Suo volto risplendeva
come il sole, che è 1a sorgente della luce; e stavano ai Suoi
fianchi, risplendenti con Lui nella Sua gloria, gli illustri
personaggi di Mosè e d’Elia. Ma allorché discendeva dal monte,
comandò a coloro che furono testimoni della Sua maestà di «non
raccontare a nessuno le cose che avevano viste». Ai piedi del monte,
quando la moltitudine sorpresa accorse per salutarlo (Marco 9:15),
Egli, che senza dubbio portava ancora sul Suo volto qualche piccola
traccia della gloria che aveva or ora lasciata, non si fermò punto
per ricevere gli omaggi che Gli si volevano tributare, ma continuò
immediatamente il Suo servizio. L’agiatezza non Lo rese superbo;
Egli non cercava una posizione tra gli uomini, ma rinnegò Sé
stesso, si annichilì, e velò la Sua gloria per non essere che un
servo.
Vediamo
la stessa cosa nel capitolo 20 di Giovanni, dopo la Sua risurrezione.
Egli è là in mezzo ai Suoi discepoli, vestito d’una gloria che
nessun uomo ha mai posseduto, né mai visto. Egli è là come il
vincitore della morte, come il distruttore della tomba; e quantunque
possedesse queste eccellenti glorie, pure non agogna gli omaggi del
Suo popolo. Qualunque altro uomo che fosse stato circondato da
pericoli, che avesse incontrato grandi difficoltà, e che alla fine
avesse ottenuto vittoria, per certo sarebbe ritornato fra i suoi
amici e nel seno della sua famiglia per riceverne gli onori; ma il
Signore Gesù non è venuto per cercare gloria dagli uomini, anzi per
aiutarli nei loro bisogni. Non mai il Signore Gesù fu indifferente
alle miserie altrui; anzi cercava sempre il momento opportuno per
esternare la Sua compassione, e quando non poteva farlo, si sentiva
privato d’una cosa che Egli desiderava. Ma ora risuscitato dai
morti, Egli appare ai Suoi piuttosto come uno che li visita, e non
come un vincitore. Si trattiene con loro parlando maggiormente dei
loro interessi che non delle grandi cose avvenute poco fa. Questo è
il fare uso della vittoria come fece Abramo dopo la sconfitta dei re
alleati, il che è assai più difficile che ottenere la vittoria
stessa. Per fare questo, bisogna saper essere nell’abbondanza e
sapere essere saziato.
Ma
Gesù seppe pure «essere nella povertà», «essere abbassato»
dagli abitanti di Samaria, come vediamo in Luca 9:51 e seguito. Fin
dal principio della scena che ci viene qui narrata, Egli afferra il
momento propizio per la Sua accettazione, e col sentimento della Sua
gloria personale, invia dei messaggeri innanzi alla Sua faccia per
annunziare la Sua venuta. L’incredulità dei Samaritani, però,
cambia lo stato delle cose. Essi Gli rifiutano l’ospitalità, non
vogliono che il Signore della gloria passi attraverso il loro paese,
e Lo costringono di cercarsi altra via, quale Egli, il rigettato,
poteva trovare. Egli accetta ancora questa posizione di rigettamento
senza opporsi e senza che il Suo cuore ne mormori; vedendosi
sprezzato come Betlehmita, diventa nuovamento Nazareo (Matteo 2); ed
allontanandosi dal paese samaritano, porta questo nuovo carattere
tanto bene come lo aveva portato nei primordi della Sua storia,
mostrando con ciò che Egli sapeva «essere abbassato» ogni
qualvolta la malvagità dell’uomo Gli contestava la Sua autorità.
Lo
troviamo presso a poco nelle stesse circostanze in Matteo 21: Egli
entra in Gerusalemme come figlio di Davide, circondato da tutto
quanto Lo può mettere in rilievo in questa Sua gloriosa dignità.
Come sul monte santo Egli aveva messo in mostra la Sua gloria
celeste, così qui appare nella Sua gloria terrestre, in quella
gloria che Gli appartiene legittimamente e che quando sarà giunta
l’ora, porterà in modo degno di Lui. Ma l’incredulità di
Gerusalemme, come poc’anzi ha fatto quella di Samaria, cambia
totalmente la scena. Egli era entrato nella città come re, ed ora è
costretto d’uscire e cercare altrove un ricovero per la notte; così
possiamo dire che, sia fuori di Samaria, sia fuori di Gerusalemme,
Egli seppe veramente «essere abbassato», trovandosi costretto, a
cercare un rifugio per la Sua augusta persona.
Quale
perfezione! — Allorché le tenebre non possono scorgere la gloria
ufficiale di Gesù, la Sua gloria morale brilla d’una luce ancor
più splendida. Come principio di morale e come carattere umano non
c’è cosa migliore d’una volontaria umiltà dinanzi agli uomini,
unita al sentimento della gloria reale davanti a Dio. Troviamo a
questo riguardo degli esempi considerevoli nella vita d’alcuni
santi. Abramo si
considerò sempre come straniero fra gli abitanti di Canaan, non
possedendo un piede di terreno e non desiderando di possederlo; ma,
se si presentava l’occasione, nel sentimento della sua dignità
davanti a Dio e secondo i Suoi decreti, egli sapeva mettersi sopra i
re. Giacobbe parla
del suo stato di forestiere, dei suoi giorni che furono corti e
cattivi, abbassandosi così agli occhi del mondo; ma nello stesso
tempo benedice un uomo che era il più autorevole del paese, sapendo
che nel cospetto di Dio, egli era migliore di lui. Davide chiede
senza onta del pane, ed accetta ad un tempo gli omaggi dovutigli come
re, prendendo dalle mani d’Abigail il tributo dei suoi sudditi.
Paolo è in catene nella prigione del governatore, e parla dei suoi
legami; ma intanto confessa dinanzi a tutta la corte ed ai grandi del
mondo romano, che egli si riconosce l’uomo più benedetto ed il
solo felice fra di loro.
Questo
assieme d’umiliazione e di dignità, di abbassamento e di
elevatezza, trova nel Signor Gesù la forma più chiara, più
risplendente e più nobile fra quante altre che ci siano nella
Scrittura. E questa capacità di sapersi condurre nelle circostanze
propizie, ci mostra che il cuore di chi è ammaestrato in queste
cose, si occupa piuttosto dello scopo del suo viaggio che non del
viaggio stesso. Se il nostro cuore si occupa del cammino che dobbiamo
fare, i travagli e le difficoltà che vediamo, le rapide salite ed i
declivi scoscesi ci saranno d’impedimento; ma se riguardiamo
allo scopo,
al termine finale, allora ci sarà facile sormontare tutte queste
cose ed ottenere l’oggetto della nostra speranza. Non c’è, forse
dell’insegnamento per noi?
Ma
nel carattere del Signore vi è inoltre un assieme di qualità che
noi dobbiamo notare. Qualcuno ha detto che «Egli fu il più grazioso
ed il più accessibile degli uomini»; e dalle Sue maniere,
quantunque si senta che Egli fu sempre unostraniero,
noi scorgiamo però una tenerezza ed una gentilezza giammai vedute in
un altro uomo. Sì, Egli fu «uno straniero quaggiù», uno straniero
quando l’uomo ribelle non gli accordava il posto che gli
apparteneva; ed si trovava subito molto vicino quando la miseria o la
necessità Lo richiedevano. La distanza che manteneva se veniva
respinto, e l’intimità che manifestava se veniva accolto, erano
entrambi perfette. Egli non solo riguardava alla miseria che
l’attorniava, ma penetrava in essa con una simpatia tutta propria;
non solo respingeva la corruzione che Lo circondava, ma serbava la
vera distanza della santità da ogni contatto o macchia di essa.
Guardiamolo
nel capitolo 6 di Marco e Lo troveremo che sta dandoci un saggio di
questo alternarsi di separazione e di intimità; Lo vedremo in una
commovente scena, allorché i discepoli si raccolgono attorno a Lui
dopo molti giorni d’indefesso lavoro: Egli s’interessa del loro
stato, divide il peso delle loro fatiche, si rende conto dei loro
bisogni e vi provvede immediatamente dicendo: «Venitevene ora in
disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco...» Ma la
moltitudine avendolo seguito, Egli si rivolge ad essa con la medesima
premura, s’investe della sua misera condizione, e vedendo che è
come una greggia senza pastore, incomincia ad insegnarle molte cose.
Vediamo in tutto ciò ch’Egli è ben vicino ai molteplici e
svariati bisogni che sorgono nell’atmosfera in cui si trova, sia
che questi bisogni provengano dalla fatica dei Suoi discepoli, sia
che derivano da una folla affamata ed ignorante. Ma i discepoli
subito si risentono per le cure che il Signore volge alla
multidudine, e Lo incitano a rinviarla; ciò che Egli assolutamente
non fa. Da questo istante tra Lui ed essi si stabilisce moralmente
una distanza, la quale viene poco dopo rivelata con il costringerli a
salire sulla barca ed a passare all’altra riva verso Betsaida,
mentre Egli congedia la folla tutto solo. Questa separazione è causa
di nuovo difficoltà per i poveri discepoli: i venti e le onde sono
contro a loro là sul lago; ed allora, mentre sono in distretta, Gesù
si avvicina di nuovo ed è pronto a soccorrerli ed a rassicurarli.
Quale
armonia in tutto questo assieme di santità e di grazia! Egli ci è
vicino quando siamo stanchi, od affamati, od in pericolo; e se ne sta
lontano dai nostri desideri naturali e dal nostro egoismo. La Sua
santità fece di Lui uno straniero in un mondo impuro; e la Sua
grazia Lo mantenne sempre attivo in un mondo necessitoso ed afflitto.
E questo mette in rilievo, si può dire, la grande gloria morale
della Sua vita; Egli che, quantunque costretto da ciò che
l’intorniava a starsene come il Solitario, pure si sentiva spinto,
dai bisogni e dai dolori che vedeva, ad essere Colui che operava
verso ogni ceto di persone e nei più svariati modi. Avversari,
moltitudini, una compagnia di discepoli cho Lo seguivano, semplici
individui, tutti Lo videro in una continua e variatissima operosità;
ed Egli dovette sapere, ciò che certamente fece in modo perfetto,
come si conveniva rispondere ai singoli interlocutori.
Inoltre
Lo vediamo qualche volta alla tavola degli
altri, ma ciò avviene soltanto per darci motivo di rimarcare qualche
nuovo tratto di perfezione. Alla tavola dei Farisei ove Lo si vede
qualche volta, Egli non ci va per adottare o sanzionare la loro vita
domestica, ma essendo invitato nella qualità ch’Egli s’era già
acquistata e sostenuta pubblicamente, è là che agisce rivestito di
tale qualità. Egli non è soltanto un ospite, che gode della
cortesia ed ospitalità del padrone di casa, ma si è recato là nel
Suo proprio carattere, e quindi può rimproverare od insegnare. Egli
è sempre la Luce, e vuol agire come la Luce; perciò manifesta le
tenebre tanto al di dentro, come aveva fatto al di fuori (vedi Luca
7:11).
Ma
se Egli entra spesso nella casa del Fariseo come dottore,
e come tale riprova lo stato morale delle cose che vi si trovano,
Egli entra pure nella casa del pubblicano come Salvatore.
Levi fa un convito in Suo onore, ed invita alla stessa tavola dei
pubblicani e dei peccatori. Naturalmente ciò fu subito notato dagli
avversari, i quali trovarono a ridire su quella compagnia poco
stimabile; ed allora il Signore si rivela come Salvatore, dicendo
loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Ora andate e imparate che cosa significhi: "Voglio
misericordia e non sacrificio";
poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori»
(Matteo 9:12-13). Parole semplici, ma stringenti e piene di forza.
Simone il Fariseo rimproverò una peccatrice che volle entrare in
casa sua per accostarsi al Signore Gesù; mentre Levi, il pubblicano,
fece delle persone come essa altrettanti dei Suoi commensali; ecco
perché il Signore in un luogo rimprovera, ed in un altro si mostra
in grazia come Salvatore.
Ma
vediamo che il Signore Gesù s’è pure seduto ad altre tavole;
osserviamolo a Gerico e ad Emmaus (Luca 21 e 24). In entrambi i casi
furono dei veri bisogni di cuore che Lo ricevettero; dei bisogni
sentiti differentemente, a seconda delle circostanze in cui furono
creati. Zaccheo non era mai stato altro che un peccatore, un uomo
naturale, il quale, come sappiamo, è corrotto nelle sue aspirazioni
e nel suo fare; ma in quell’istante egli si trovava appunto sotto
l’influenza del Padre, e l’anima sua fece di Cristo l’unico
oggetto dei suoi pensieri. Egli bramava vederlo, ed il suo desiderio
essendo potente, egli si apre una via attraverso la folla,
s’arrampica ad un sicomoro... purché giunga in tempo per vederlo
quando passerà lì vicino! Il Signore giunge, alza gli occhi, lo
vede, e subito s’invita a casa sua. Questo è proprio singolare:
Gesù non è invitato, ma Egli stesso si fa ospite del pubblicano di
Gerico!
I
primi sintomi di vita in un povero peccatore, il desiderio che era
stato risvegliato dai disegni del Padre, erano già pronti in quella
casa per dargli il benvenuto; ma Egli con dolcezza e con modi molto
espressivi previene la buona accoglienza che avrebbe avuto, e vi
entra come Uno che risponde pienamente ai bisogni di questa vita
recentemente accesa, onde infiammarla e rinforzarla, finché abbia
esternato qualcuna delle sue preziose virtù, e portato qualcuno dei
suoi buoni frutti. — «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni
ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo»
(Luca 19:8).
Ad
Emmaus il desiderio s’era
ben anche fatto sentire, ma in condizioni diverse; non si trattava
dei bisogni d’un’anima convertita poco fa, ma di santi ristorati.
I due discepoli erano stati increduli, e se ne ritornavano a casa
loro sotto la triste impressione che Gesù aveva mancato alle loro
giuste aspettazioni. Il Signore appena li raggiunge sulla via, li
rimprovera della loro incredulità, ma ordina le Sue parole in modo
da infiammare i loro cuori; e quando sono giunti alla loro
abitazione, Egli, invece d’invitarsi come ha fatto a Gerico, f’a
mostra di continuare il Suo cammino. Essi non erano in uno stato
morale che spingesse il Signore di far ciò, come ne era stato il
caso con Zaccheo; ma appena viene invitato, accetta, ed entra da i
Suoi ospiti per ravvivare ancor più, ed appagare pienamente quel
desiderio che fu la causa del Suo invito. Quindi i due discepoli, coi
cuori pieni di gioia, si sentono spinti di ritornare nella città in
quella stessa notte, quantunque tardi, per dare la lieta notizia ai
loro compagni.
Quale
varietà di bellezze in tutte queste scene! L’ospite del Fariseo,
l’ospite del pubblicano, l’ospite dei discepoli, che sia invitato
o non, in Gesù occupa sempre il posto di ogni perfezione e di ogni
bellezza. Potrei parlare ancor molto di Lui quale commensale alle
tavole altrui, ma mi limiterò ad osservarlo ancora in un luogo... a
Betania, dove Lo vediamo nel seno d’un’amata famiglia. Se Gesù
avesse disapprovato l’idea d’una famiglia cristiana, non sarebbe
stato a Betania; ed inoltre, quando Lo vediamo là, Lo scorgiamo
sempre in qualche nuova fase di morale bellezza, Egli è un amico di
casa, e trova fra loro ciò che noi troviamo ancora ai nostri giorni,
un luogo dove può essere interamente libero di aprire il Suo cuore e
manifestare le Sue più delicato affezioni. Vediamo che ciò è
confermato da Giovanni 11:5: «Or Gesù amava Marta e sua sorella e
Lazzaro». L’amore che Egli nutriva per loro non era quello d’un
Salvatore o d’un pastore, quantunque fosse l’uno e l’altro per
essi; ma era l’amore intenso e sincero d’un amico di famiglia.
Però quantunque fosse amico, un amico intimo, che avesse sempre la
porta largamente aperta per entrarvi, Egli non s’immischiò mai
negli affari domestici. Marta aveva la direzione della casa, la
persona la più occupata della famiglia, ufficio utile ed importante
al suo posto; e certamente Gesù la lascia dove l’ha trovata; non è
per Lui di cambiare o regolare tali cose, Lazaro può ben tener
compagnia a tavola agli ospiti della famiglia; Maria può essere
assorta nel suo proprio regno, o nel regno di Dio in essa; Marta può
ben affaccendarsi nel servizio: sia pur così; Gesù lascia tutto
come ha trovato. Egli che non sarebbe entrato in casa altrui senza
essere invitato, quando entrò da quei Suoi amici di Betania, non
volle immischiarsi nei loro affari; ma se un membro della famiglia
invece di stare al suo posto, vuol insegnare in Sua presenza, Egli
deve e vuol riprendere il Suo più alto carattere, regolando le
cose divinamente,
quantunque non avesse mai voluto entrarci sul piano del
ordine domestico (Luca
10).
Che
svariata e squisita bellezza! Chi può annoverarne tutti i
particolari? La moltitudine delle cose a raccontare sorpassa la
capacità della mente per ritenerle. E se nessuna mente umana può
appieno capire l’assieme di questo oggetto, dov’è quell’umano
carattere che non abbia aiutato colle sue ombre ed imperfezioni a
metterne maggiormente in rilievo lo splendore? Nessun di noi
penserebbe che Giovanni, o Pietro, o qualcuno degli altri apostoli
fosse duro di cuore o grossolano; sentiamo, invece, che volontieri
avremmo loro confidato le nostre pene e le nostre circostanze.
Ebbene, quel fatto menzionato poco fa nel capitolo 6 di Marco, ci fa
vedere che tutti caddero in errore, e si allontanarono dai veri
bisogni quando la moltitudine affamata si rivolgeva a loro,
interrompendo il loro riposo; ma, al contrario, quello fu il vero
momento, l’occasione propizia per Gesù di avvicinarsi ad essa.
Tutto ciò ci mostra quel che realmente Egli è, cari fratelli!
Parlando
del Signore Gesù, qualcuno disse : «Io non conosco uomo così
gentile, così condiscendente, che si sia abbassato fino ai poveri
peccatori come Lui. Io ho più fiducia nel Suo amore che non in
quello di Maria o di qualche santo; non mi fido soltanto nella Sua
potenza come Dio, ma anche nella tenerezza del Suo cuore come uomo.
Non si vide mai nessuno come Lui, che facesse come Egli ha fatto, e
che riuscisse così bene come Egli ha riuscito; — nessumo m’inspirò
giammai tanta confidenza come Lui. Che gli altri vadano pure ai santi
od agli angeli, se vogliono; per me mi confido interamente nella
bontà di Gesù».
Certamente,
lo ripeto, questo è vero; e la breve narrazione di Marco 6, la quale
ci rivela da un lato la strettezza di cuore dei migliori fra noi,
come Pietro e Giovanni, e manifest dall’altro la piena ed
imperitura grazia di Gesù, ce lo conferma.
Ma
oltre a ciò, la relazione che Egli ha avuto col mondo, mentre era
quaggiù, ci mostra che c’era in Lui accumulati un assieme di vari
caratteri, come pure di virtù e di grazie. Egli fu ad un tempo un
vincitore, un sofferente ed un benefattore; — quali glorie morali
brillano in tale combinazione! Egli vinse il mondo rifiutando tutte
le sue attrattive ed offerte; soffrì per esso, testimoniando di Dio
contro il suo andamento ed il suo spirito; lo benedì con continue
dispensazioni di amore e di potenza; restituì sempre bene per male.
Le sue tentazioni fecero di Lui un vincitore; la corruzione ne fece
un sofferente; e le miserie ne fecero un benefattore. Che magnifica
riunione di virtù in un solo uomo!— Qual gloria morale risplende
in esse!
Il
Signore illustrò quel motto che si ripete tra noi «nel mondo,
ma non del mondo»,
— una espressione che forse deriva da ciò che Egli stesso disse in
Giovanni 17:15: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li
preservi dal maligno». Egli fu la manifestazione vivente d’un tale
stato, durante tutta la Sua vita; poiché fu sempre nel mondo,
operando fra l’ignoranza e la miseria che Lo circondava; ma giammai
appartenne ad esso, come qualcuno che partecipi i suoi progetti e le
sue speranze, o che respiri la sua atmosfera.
Nel
capitolo 7 di Giovanni, però, Egli si mostra più specialmente
rivestito di questo carattere. La festa dei tabernacoli era vicina,
l’epoca che coronava la gioia d’Israele, il saggio del regno
avvenire, la stagione della ricolta, quando il popolo non aveva se
non a ricordare che
in altro tempo era stato errante nel deserto e dimorante in un campo.
I Suoi fratelli gli propongono di cogliere questo momento propizio,
quando «tutto il mondo», come si dice, era a Gerusalemme, affinché
manifestasse pubblicamente chi Egli era. Essi avrebbero voluto che
fosse diventato un personaggio d’importanza, che si fosse fatto «un
uomo del mondo». «Se tu fai queste cose, manifèstati al mondo»,
ma Egli rifiutò, perché il Suo tempo non era ancor venuto per
celebrare la festa dei tabernacoli. Egli avrà il Suo regno nel
mondo, che si estenderà su tutta la terra, appena sarà venuto il
Suo giorno; ma fino allora era sulla via dell’altare e non su
quella del trono. Egli non vuole andare alla festa per prendervi
parte, quantunque voglia essere in essa;
quindi, appena giunto nella città, Lo vediamo intento a servire e
non a procacciarsi onori;
non operando miracoli, come avrebbero voluto i Suoi fratelli, per
guadagnarsi la fama degli uomini; ma insegnando gli altri, e
nascondendo Sé stesso col dire: «La mia dottrina non è mia, ma di
colui che mi ha mandato».
Tutto
ciò è veramente particolare e caratteristico; e fa parte della
gloria morale di Gesù, dell’uomo perfetto nelle Sue relazioni col
mondo. Egli fu nel mondo come un vincitore, un uomo di dolori ed un
benefattore; wa non fu del mondo. Noi lo vediamo con uguale
perfezione tanto a distinguere
le cose,
come esporre queste magnifiche combinazioni; così, occupandosi delle
afflizioni delle persone che sono di
fuori,
per così dire, vediamo la tenerezza, la potenza che solleva; e
stando occupato delle difficoltà dei discepoli,
vi troviamo alla tenerezza unita la giustizia. Il lebbroso in Matteo
8, è uno straniero che va a Gesù, gettando sopra di Lui tutte le
sue afflizioni, e riceve subita guarigione; ma i discepoli che vanno
pure a Lui nella difficoltà della tempesta, assieme al conforto
ricevono il rimprovero: «Perché avete paura, o gente di poca fede?»
Il lebbroso però non aveva maggior fede dei discepoli; se questi
dissero: «Signore, salvaci, siamo perduti!», quello gridò:
«Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi»; eppure gli uni furono
rimprovrrati, e l’altro no. Secondo la mente del Signore, questi
due casi erano differenti l’uno dall’altro, ed il Suo modo
d’agire fu con giustizia. In un caso si trattava semplicemente
di afflizione,
mentre nell’altro si trattava e di
afflizione e dell’anima;
perciò la pura tenerezza fu la risposta nell’uno, mentre
nell’altro abbisognò aggiungervi la giustizia. La diversità di
relazione che avevano con Lui i discepoli e gli estranei, ci spiega
questo Suo modo di fare, e ci mostra che Egli sapeva distinguere
perfettamente le cose, le quali, quantunque si rassomigliassero di
molto, non erano le stesse.
Ma
ecco la perfezione: se Egli riprende, non permetterà mai che altri
lo faccia neanche leggieremente. E come Mosè fu umiliato dal
Signore, senza che questi permettesse a Maria e ad Aronne di
rimproverarlo (Numeri 11, 12); come Israele nel deserto fu punito
ripetutamente dalla mano dell’Eterno, e giustificato da questi
stesso allorché Balaam voleva accusarlo; così il Signore Gesù
volle intervenire in modo solenne tra i due discepoli che s’erano
attirato il biasimo, ed i dieci che li biasimavano (Matteo 20); e
quantunque inviasse un avviso con una segreta ammonizione a Giovanni
Battista (inviandogli un messaggio che solo la sua coscienza poteva
comprendere), si volse alla moltitudine, e parlò di Lui con lode e
con diletto (Matteo 11).
Abbiamo
inoltre altri esempi di questa grazia che sa distinguere le cose che
differiscono fra di loro. Trattando con i Suoi discepoli, giunse pure
un momento in cui la giustizia si tacque, e la tenerezza soltanto fu
esercitata; questo fu il momento della separazione, descritta con
linguaggio commovente in Giovanni 14, 15 e 16. Allora era troppo
tardi per essere severo; le circostanze del momento non l’avrebbero
permesso, ed il cuore voleva
che questo poco tempo appartenesse interamente ad esso. L’educazione
dell’anima non sarebbe stata propizia; Egli rivela loro dei nuovi
segreti, è vero, dei segreti che hanno attinenza alla più cara e
più intima relazione col Padre; ma c’è nulla che si approssimi ad
un un rimprovero. Non si odono simili espressioni: «O gente di poca
fede», oppure: «Non capite ancora?» C’è bensì una parola che
suona ad un dispresso in questo senso (Giovanni 14:9); ma è soltanto
per mostrare la ferita d’un cuore che aveva sofferto, e manifestare
l’amore che Egli aveva per loro.
Questo
fu la santità del dolore nel momento della separazione, secondo la
mente perfetta e l’affezione di Gesù; ciò che facciamo anche noi
in piccola misura, ma abbastanza per poter gioire ed ammirare la
piena espressione in Lui. Troviamo nell’Ecclesiaste che «c’è un
tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci». —
Questo è una legge dell’amore che Gesù osservò.
Però
Gesù non si lasciò mai trascinare dalla dolcezza quando il caso
richiedeva fermezza e fedeltà, quantunque passasse per molte
circostanze atte a scuotere la sensibilità del cuore umano, ed in
cui il senso morale dell’uomo avrebbe giudicato bene l’esserne
scosso. Egli non volle mai guadagnare i Suoi discepoli coi poveri
mezzi di una natura amabile. Il miele era escluso dall’offerta
fatta per fuoco, come lo era il lievito; l’offerta di panatica non
ne aveva (Levitico 2:11); e nemmeno Gesù, che fu la vera offerta di
panatica, non ne ebbe mai. Non fu mai quel fare semplicemente civile
e cortese che i discepoli videro nel loro Maestro; e non furono mai
quelle belle maniere che s’inspirano unicamente ai desideri altrui.
Egli non cedette mai ai loro capricci od ai loro naturali pensieri,
eppure li tenne sempre strettamente legati a Sé; questo è la vera
potenza.
È
sempre prova di potenza morale ogni volta che si guadagna la
confidenza altrui senza cercarla, poiché allora il cuore è divenuto
conscio della realtà dell’amore. «Noi tutti sappiamo», dice
qualcuno, «quanta differenza vi sia tra l’amore e la cortesia, e
che questa può abbondare dove quello non è mai esistito. Qualcuno
può dire che la cortesia attira la nostra confidenza, ma noi stessi
sappiamo che soltanto l’amore è capace di far ciò». Questo è
verissimo. Quelle belle maniere esteriori, per sé stesse non sono
altro che miele; e quanto ce n’è ancora fra noi! Trascinati dalla
corrente, noi siamo disposti a credere che tutto questo vada bene; e
forse non miriamo ad altro scopo più elevato che di purgarci dal
lievito e riempirci di miele. Siamo pure amabili, compiamo pur bene
la nostra parte sulla scena della ben ordinata e civile società,
compiacendo gli altri, e facendo il nostro possibile perché stiano
in buoni rapporto con noi; allora noi saremo soddisfatti di noi
stessi, e gli altri lo saranno di noi; ma è questo il servire Dio? È
questa un’offerta di panatica? Veramente non si può dire che lo
sia. Ammetto che noi possiamo naturalmente giudicare esservi nulla di
migliore o di più efficace; ma ciò nondimeno è un secreto del
santuario che il
miele non era usato per rendere gradevole l’offerta.
Noi
dunque abbiamo visto che la gloria morale e la bellezza di tutte le
vie del Figlio dell’uomo sono perfette nei loro sviluppi, nelle
loro opportunità, nelle loro combinazioni e nelle loro distinzioni.
La vita di Gesù fu come il brillante chiarore d’una candela. Egli
fu come una lampada nella casa di Dio, che non aveva bisogno né di
smoccolatoi, né di piattini d’oro puro come era prescritto dalla
legge (Esodo 25:38); e che stava del continuo accesa davanti al
Signore, bruciando olio puro e vergine (Esodo 27:20). Egli manifestò
tutto quello che Lo attorniava, mettendolo in rilievo, e se occorre,
riprovandolo; ma tenne sempre il Suo posto senza biasimo.
Sia
che venisse provocato dai discepoli, sia che fosse accusato dagli
avversari, come spesso gli accadde, non cercò mai di scusare Sé
stesso. «Maestro, non t’importa che noi moriamo?» (Marco 4:38);
ma Egli non pensa di ricuperare quel sonno da cui simile domanda l’ha
scosso. Altra volta invece di rispondere alla Sua domanda, gli
obiettano: «Maestro, la folla ti stringe e ti preme, [e tu dici: Chi
mi ha toccato?]» (Luca 8:45); ma senza bisogno di far ulteriori
ricerche, Egli agisce in modo che l’oggetto di esse si manifesta
pubblicamente. In altra circostanza ancora, Marta gli dice: «Signore,
se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Giovanni
11:21); Egli però non si scusa di non essere stato là, né d’aver
protratto di due giorni la Sua venuta, ma insegna a Marta
qual carattere
meraviglioso aveva dato a quel momento il Suo ritardo.
Che bella maniera fu questa di giustificare il Suo ritardo!
E
così fu in ogni simile circostanza; sia che fosse accusato, sia che
fosse biasimato, Egli non ritrattò mai una parola e non indietreggiò
mai di un sol passo. Ogni lingua che osava pronunziar giudizio contro
di Lui, veniva da Esso condannata. Sua madre Lo rimprovera in Luca 2;
ma invece di sostenere la sua accusa, è costretta di convincersi che
i suoi pensieri sono tenebre ed errore. Pietro, nella foga del suo
zelo, osa ammonirlo dicendogli: «Dio non voglia, Signore! Questo non
ti avverrà mai» (Matteo 16:22); ma subito devo apprendere che
quell’ammonizione viene da Satana. Uno dei sergenti del Sommo
Sacerdote va ancor più lungi, ed insieme al rimprovero, gli dà uno
schiaffo; ma viene immediatamente convinto d’aver trasgredito le
leggi in presenza e sul luogo stesso dove si amministrava la
giustizia (Giovanni 18).
Tutto,
tutto ci parla del cammino che fece il perfetto Maestro. Accadde alle
volte che le apparenze gli erano contro: perché, per esempio,
dormiva sulla barca, mentre il vento e le onde infuriavano ? —
Perché si fermava nella la via, mentre la figlia di Iairo era
morente? (Luca 8); e perché dimorò ancora due giorni dov’era,
mentre il Suo amico Lazaro era ammalato nel lontano villaggio di
Betania? Ma tutto questo non fu che apparenza,
e durò solo per un momento. Abbiamo parlato di queste maniere di
Gesù, del Suo dormire, del Suo fermarsi, del Suo ritardo, ma abbiamo
anche visto che il Suo fine fu sempre perfetto. Le apparenze erano
pure contro il Dio di Giobbe nei giorni dei patriarchi; messaggio
dopo messaggio faceva la sua apparizione inesorabile e senza pietà;
ma Egli non ebbe a scusarsi, più di quanto lo avesse il Gesù dei
Vangeli, il quale non si scusò giammai.
Quindi,
se consideriamo Gesù come la lampada del santuario, come la luce
nella casa di Dio, vediamo subito che gli smoccolatoi ed i piattini
sono inutili, e che non possono avere in Lui la realtà di ciò che
rappresentano. Perciò coloro che imprendevano ad accusarlo o
biasimarlo mentre era quaggiù, dovevano ritornarsene biasimati e
confusi. Essi volevano adoperare gli smoccolatoi ed i piatteni per
una lampada che non ne aveva bisogno, e non facevano che mostrare la
loro follia; mentre la luce di questa lampada brillava ancor più,
non perché si fossero adoprati gli smoccolatoi, ma per dimostrare
(come fece in ogni circostanza) che essa non ne aveva bisogno.
Da
tutti questi fatti noi impariamo che il meglio che noi possiamo fare,
si è di starcene vicini a Gesù senza mettere degli inciampi sul Suo
cammino. Noi possiamo riguardare ed adorare, ma non mai immischiarci
od interrompere l’opera Sua, come usavano fare nei loro tempi i
Suoi nemici, i parenti, e persino i Suoi discepoli. Essi non potevano
perfezionare quella luce che brillava in mezzo a loro; ma ne
avrebbero dovuto essere rallegrati, e camminare in essa senza tentare
di ordinarla. Guardiamo che il nostro occhio sia netto, e siamo certi
che la lampada del Signore illuminerà tutto il nostro corpo.
Ma
proseguiamo. Come Gesù non cercò mai di giustificarsi dal giudizio
dell’uomo durante tutto il tempo del Suo ministero (come abbiamo or
ora veduto), così nell’ora delle Sue sofferenze, quando le potenze
delle tenebre gli erano contro, Egli non cercò un sollievo e non
sperò nessun appoggio dall’umana pietà. Quando divenne il
prigioniero dei Giudei e dei Gentili, non uscì dalla Sua bocca né
supplica, né domanda; nessuno udì da Lui una parola che facesse
appello alla compassione o che volesse difendere la Sua vita. Egli
aveva bensì pregato il Padre in Getsemane; ma non cercò minomamente
di commuovere i sacerdoti giudei od il governatore romano. Tutto
quello che disse in quel momento fu solo per mostrare il peccato che
l’uomo, sia Giudeo o Gentile, stava compiendo.
Quale
pittura vien tracciata agli occhi nostri! — Chi ne avrebbe potuto
immaginare il soggetto? — Esso, come ben fece osservare un altro,
avrebbe dovuto essere esposto prima di poterlo descrivere. Esso fu
l’uomo perfetto, che camminò quaggiù nella pienezza della gloria
morale, i cui riflessi furono lasciati dallo Spirito Santo sulle
pagine dei Vangeli. Ed assieme alla semplice e beata certezza del Suo
personale amore verso di noi (che il Signore l’accresca nei nostri
cuori!), c’è nulla che ci faccia tanto desiderare d’essere con
Lui come la scoperta di ciò
ch’Egli è.
Ho sentito io d’una persona, che osservando il Suo brillante e
benedetto cammino nei quattro Vangeli, fu commossa fino alle lacrime,
ed esclamò: «Oh se io fossi con Lui!»
Se
mi fosse lecito di parlare per gli altri, cari fratelli, direi che
questo è ciò che ci manca,
ma che è pure ciò che aneliamo di
possedere. Noi conosciamo il nostro bisogno, ma possiamo aggiungere
che il Signore conosce il nostro desiderio.
[Questa
parte è stata pubblicata nel Messaggero Cristiano, in giugno 1980.]
Il
libro dell’Ecclesiaste dice: «Per tutto c’è il suo tempo;...
c’è un tempo per conservare e un tempo per buttar via»
(Ecclesiaste 3:6). Il Signore Gesù sapeva perfettamente quando
occoreva conservare e anche buttare via.
Tutto
quello che viene impiegato per servire Dio con cuore sincero, non è
sprecato. Davide diceva all’Eterno: «Tutto viene da te; e noi ti
abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto» (1 Cronache
29:14).
Le
bestie che popolano le migliaia di monti sono sue; è suo tutto
quello che c’è sulla terra. Ma Faraone considerò un atto di
«pigrizia» la domanda che faceva il popolo d’Israele di partire
per andare a offrire sacrifici all’Eterno: «Siete dei pigri! Siete
dei pigri! Per questo dite: Andiamo a offrire sacrifici all’Eterno»
(Esodo 5:17). Anche i discepoli stimarono una «perdita» i trecento
denari spesi da Maria per ungere Gesù (Matteo 26:8). Eppure, dare al
Signore ciò che gli appartiene, l’onore e l’affetto del cuore,
l’opera delle nostre mani e i beni della nostra casa, non è né
uno sciupio né un atto di pigrizia: dare a Dio è il primo dei
doveri. Mi spiegherò meglio.
Rinunciare
all’«Egitto» non è trascuratezza, e rompere un vaso di profumo
sul capo di Gesù non è uno spreco, sebbene tra la gente del mondo,
e a volte anche tra i credenti, sia considerato così. Molti sono i
credenti pii che rinunciano deliberatamente a certi vantaggi terreni
o trascurano certe prospettive mondane perché hanno veramente
compreso cosa significhi essere associati a un Cristo rigettato; ma
agli occhi di molti tutto questo è indolenza o dissipazione. Si
sarebbero potuti conservare i vantaggi, essi pensano, o perseguire e
raggiungere le prospettive terrene per poi servirsene per il Signore.
Chi pensa così è in grave errore, e vorrebbe che uno ci tenesse
alla posizione e all’influenza umana, considerando poi queste cose
come un dono da poter mettere a profitto degli altri, della loro
edificazione o del loro progresso. Ma se Cristo fosse veramente
conosciuto come un Signore rigettato, ben diversi sarebbero i
ragionamenti. Questa posizione nella vita, questi vantaggi terreni,
queste tanto ricercate occasioni di progresso materiale non sono
altro che quell’Egitto che Mosè abbandonò quando rifiutò di
essere chiamato figlio della figlia di Faraone. I tesori d’Egitto
per lui non erano ricchezze, perché non poteva impiegarli per il
Signore. Preferì allontanarsene e il Signore lo incontrò e si servì
di lui non per utilizzare i tesori d’Egitto e mettere in risalto la
sua posizione alla corte, ma per liberare il suo popolo dalla dura
schiavitù.
Devo
aggiungere ancora qualche pensiero su questo soggetto, perché io
credo che sia importante per noi.
Questa
rinuncia, di cui Mosè ci offre un esempio, deve però essere
accompagnata dall’intelligenza della fede se non la si vuol privare
della sua realtà e della sua bellezza. Se si agisce solo per un
principio «religioso», per guadagnarsi qualche merito o qualche
giustizia, a nulla serve; anzi, è peggio di uno spreco o di un atto
di pigrizia. Satana, in questo caso, ha riportato lui una vittoria su
di noi, anziché noi sul mondo. Ma se la rinuncia è stata compiuta
nella fede e nell’amore per un Cristo rigettato, nella piena
consapevolezza della relazione che un tale Signore ha col «presente
secolo malvagio», allora è un’offerta a Dio.
Fare
del bene agli uomini a spese della Verità e dei principi divini non
è cristianesimo, quantunque coloro che agiscono in tal modo siano
chiamati «benefattori»; il vero cristiano si preoccupa tanto della
gloria di Dio quanto della felicità degli uomini. Se perdiamo questo
di vista, saremo tentati di considerare come una perdita di tempo e
di denaro molte cose che sono invece la reale espressione di un
servizio santo, devoto, intelligente e coerente con la Parola.
Il
Signore ci insegna questa lezione quando giustificò la donna che
sparse sul suo capo l’olio odorifero di gran prezzo. Noi dobbiamo,
in quel che facciamo, considerare prima di tutto la gloria di Dio,
anche se gli uomini si rifiutano di sanzionare ciò che ritengono non
contribuisca al miglioramento del mondo e al benessere terreno. Gesù
ha rivendicato i diritti di Dio su questo mondo egoista pur
riconoscendo, come sappiamo, i diritti del prossimo al di sopra dei
propri. Egli sapeva quando si doveva «conservare» e quando «buttare
via»; e così, se dice ai discepoli: «Perché date noia a questa
donna? Ha fatto una buona azione verso di me», dice anche, dopo aver
sfamato la folla: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente si
perda» (Giovanni 6:12). Se il servizio prodigo del cuore o delle
mani nel culto di Dio non è uno spreco, le briciole stesse del
nutrimento di chi ha fame sono sacre e non devono essere gettate via.
Colui che giustificò la spesa di trecento denari, non permise che i
resti dei cinque pani moltiplicati restassero in terra; essi
costituivano il nutrimento della vita del corpo, così come l’erba
dei campi che Dio aveva dato all’uomo per la sua sussistenza. E la
vita è una cosa sacra; Dio è il Dio dei viventi. Parlando di tutte
le erbe e di tutti gli alberi fruttiferi che fanno seme, Dio aveva
detto all’uomo: «Questo vi servirà di nutrimento». (Genesi
1:29). Perciò Gesù voleva santificare ciò che Dio aveva dato. A
coloro che erano sotto la legge era prescritto ciò: «Quando farai
guerra a una città per conquistarla e la cingerai d’assedio per
lungo tempo, non ne distruggerai gli alberi a colpi di scure; ne
mangerai il frutto, ma non li abbatterai... Potrai però distruggere
e abbattere gli alberi che saprai non essere alberi da frutto»
(Deuteronomio 20:19-20). Sarebbe stato uno sciupio, una profanazione,
abusare di ciò che Dio aveva dato per mantenere la vita, e Gesù,
nella sua ubbidienza al pensiero divino, non vuole che nemmeno una
briciola vada perduta. «Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente
si perda».
Non
sono che dettagli; ma tutte le circostanze della vita umana, per
quanto passeggere siano, per quanto piccole, quando Gesù le
attraversa sono rischiarate da un raggio di quella gloria morale che
ha illuminato sempre, con una fulgida luce, il sentiero sul quale il
Signore posava i suoi piedi. L’occhio umano era incapace di
discernerla, ma dinanzi a Dio tutto saliva come il profumo di un
incenso, come un «sacrificio di odore soave», come l’offerta
dell’oblazione del santuario.
Inoltre,
il Signore non giudicò mai le persone basandosi unicamente sui
rapporti esteriori che avevano con Lui, ciò che è uno sbaglio
comune a tutti noi. Naturalmente noi giudichiamo gli altri dal modo
con cui agiscono verso di noi, e ne prendiamo interesse secondo il
loro carattere ed il loro merito; ma il Signore non faceva così. Dio
è un Dio di sapienza, e pesa esattamente tutte le azioni, avendo
una piena conoscenza
di ciascuna di esse. Egli ne vede i fini più reconditi, e le giudica
in conseguenza. Durante il ministerio del Signore Gesù sopra la
terra, noi vediamo ch’Egli, essendo l’immagine del Dio della
sapienza, agiva in tal guisa; e ne abbiamo una prova nel capitolo 11
di Luca. Ciò che in apparenza indusse il Fariseo ad invitarlo
cortesemente a pranzo fu la simpatia verso Lui; ma il Signore era «il
Dio della sapienza», e come tale Egli apprezzò quest’azione nella
pienezza del suo carattere morale.
Il
miele della gentilezza, che è il migliore ingrediente della vita
sociale in questo mondo, non giunse mai a pervertire il Suo gusto o a
modificare il suo imparziale giudizio. Egli approvò sempre tutto ciò
che vide di buono o di eccellente; ma le convenienze sociali che Lo
invitarono alla tavola altrui, non determinarono mai il giudizio di
Colui che teneva le bilancia del Santuario di Dio. In questa
circostanza le maniere civili del Fariseo dovettero subire un
confronto con il Dio della sapienza, e non poterono resistere. Quale
rimprovero v’è anche per noi in tutto ciò!
L’invito
nascondeva uno scopo premeditato; e vediamo infatti che appena il
Signore ebbe varcato la soglia della casa, l’ospite non agisce come
tale, ma da Fariseo, manifestando gran meraviglia perché il suo
invitato non si era lavato prima di sedere a tavola. Il carattere
ch’egli assume in principio, si mostra poi al fine in tutta la sua
forza; ed il Signore si comporta in conseguenza, poiché lo giudica
secondo il suo vero valore. Qualcuno potrebbe dire che la cortesia
ricevuta avrebbe dovuto imporgli silenzio; ma Egli non considerò
quest’uomo unicamente dal punto di vista della relazione che aveva
con Lui; ne manifesta i segreti pensieri; li disapprova apertamente;
e vediamo alla fine della scena che il suo retto giudizio Lo
giustifica pienamente. «E quando fu uscito di là gli scribi e i
farisei cominciarono a contrastarlo duramente e a farlo parlare su
molte cose; tendendogli insidie, per cogliere qualche parola che gli
uscisse di bocca» (Luca 11:53-54).
Però
verso un altro Fariseo, dal quale fu pure invitato a pranzo, il
Signore agisce in modo affatto differente (vedi Luca 7), poiché
Simone non nascondeva nessuno scopo premeditato nel suo invito. Pare
bensì che agisca anche lui da Fariseo, accusando in sé stesso la
povera peccatrice della città, ed il suo invitato per aver permesso
il suo contatto; ma le apparenze non bastano per formare un retto
giudizio; e noi sappiamo che spesso le medesime parole pronunziate da
differenti labbra hanno un ben diverso significato. Quindi il
Signore, che basava ogni cosa colla divina bilancia, quantunque
rimproveri Simone e lo metta a nudo davanti ai suoi propri occhi, lo
chiama per nome, e lascia la sua casa come un convitato avrebbe
dovuto lasciarla. Egli distingue il Fariseo del capitolo 7 di Luca
dal Fariseo del capitolo 11, quantunque abbia seduto alla tavola di
entrambi.
Parimenti
opera il Signore nei riguardi di Pietro nel capitolo 16 di Matteo.
Quando esso dice: «Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà
mai», manifesta bensì un appassionato e premuroso attaccamento per
il suo Maestro; ma Gesù giudica le sue parole secondo il loro giusto
valore morale.
Bisogna ammettere che per noi è duro assai e difficile il far ciò
quando siamo personalmente encomiati, ma non così per il Signore. La
risposta che diede a Pietro: «Vattene via da me, Satana!» non fu
suggerita da una natura semplicemente amabile, ma dal fatto che Egli
non riguardò le parole del Suo discepolo come esprimenti soltanto
della bontà e della benevolenza verso di Lui. Egli le giudicò alla
presenza di Dio, e vide subito che erano una suggestione del nemico;
perché colui che può trasformarsi in angelo di luce, spesso si
nasconde dietro a parole piene di cortesia e di affetto.
Nello
stesso modo il Signore tratta Tomaso nel capitolo 20 di Giovanni.
Questi Lo adorò dicendo: «Signor mio e Dio mio!» ma nemmeno queste
parole valsero per far scendere Gesù da quell’altezza morale alla
quale si trovava e da cui udiva e vedeva ogni cosa. Senza dubbio
erano parole sincere, parole prodotte da una mente che, illuminata da
Dio, s’era convertita al risorto Salvatore, e che invece di
continuar nel dubbio, adorava; ma Tomaso era stato lontano il più
che potè, essendo andato fino all’eccesso (Giovanni 10:25). È
vero che tutti i discepoli erano stati increduli quanto alla
risurrezione, ma egli aveva dichiarato che avrebbe persistito
nell’incredulità finché non avesse avuto prove materiali che
dimostrassero il contrario. Questo era il suo vero stato morale; e
Gesù lo mette a posto, come aveva fatto con Pietro, dicendogli:
«Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno
visto e hanno creduto!»
Se
noi ci fossimo trovati nel caso del Signore Gesù, i nostri cuori si
sarebbero lasciati cogliere per sorpresa, e non avrebbero potuto
resistere né alla benevolenza del focoso Pietro, né all’adorazione
dell’incredulo Tomaso; ma il nostro perfetto Maestro fu per Dio e
per la Sua verità; e non badò a Sé stesso. Israele poteva
benissimo onorare l’arca e portarla sul campo di battaglia (1
Samuele 4), dicendo che in sua presenza tutto sarebbe andato bene per
loro; ma questo non era il pensiero di Dio; perciò esso fu battuto
dai Filistei, quantunque l’arca fosse stata trasportata nella
mischia. Così Pietro e Tomaso vengono rimproverati, quantunque Gesù,
antitipo dell’arca e sempre il Dio d’Israele, sia onorato da
loro.
Gli
angeli si rallegrano del pentimento d’un peccatore, e la Parola ci
dice che: «v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo
peccatore che si ravvede». È bello vederci rivelato questo segreto
del cielo ed averne diverso illustrazioni come troviamo in Luca 15.
La
gioia, quantunque sia in cielo, è pubblica;
si manifesta per sé stessa e tutta la casa ne partecipa come se
fosse una gioia comune. Ma c’è qualcosa di più: come c’è la
gioia del cielo, c’è ancora la gioia del cuor
di Dio.
Troviamo la prima in Luca 15 e la seconda in Giovanni 4:27-32.
Quest’ultima, non è necessario il dirlo, è la più profonda; è
perfetta, silenziosa ed personale; essa non ha bisogno d’essere
risvegliata e sostenuta da altri, ma vive d’una vita propria. «Io
ho un cibo da mangiare che voi non conoscete», così si esprime il
cuore di Cristo nel godimento di questa gioia, la quale non può
essere partecipata da nessuno. Troviamo (1 Re 8:11) che i sacerdoti
non poterono stare in piè per fare il servizio, perché la gloria
riempiva la casa del Signore; vediamo che il Pastore, quando ebbe
trovato la pecora smarrita, se la mise sulle spallo, provando una
gioia tutta propria, non avendo ancor potuto comunicare la buona
notizia ai suoi amici (Luca 15:4-6); vediamo in Luca 7 che la casa
del Fariseo non era ancora chiamata a partecipare alla gioia del
Salvatore, quando la donna Lo lasciò, come una felice peccatrice
perdonata; qui in Giovanni 4 possiamo osservare che i discepoli
sentivano la solennità del momento (versetto 27), ma che nessuno osò
intromettersi in ciò che taceva il loro Maestro, e che se ne stavano
in disparte silenziosi, mentre il grasso, la parte riservata
all’altare (Levitico 7:31), il «cibo di Dio» (cf Numeri 28:2) era
preparato. Questo fu un momento meraviglioso e non comune. La
profonda ed inesprimibile gioia del cuore divino viene qui tracciata,
come la pubblica gioia del cielo viene manifestata nel capitolo 5 di
Luca.
Ma
Colui che poteva essere così «nutrito», si trovò pure ad essere
stanco, ad aver fame ed a soffrir la sete. Vediamo ciò in questo
stesso capitolo 4 di Giovanni come nel capitolo 4 di Marco, con
questa differenza però: che in Marco prende sonno per avere il
necessario riposo, mentre in Giovanni può farne senza. E perché
ciò? In Marco Egli aveva avuto una giornata faticosa, ed alla sera
era stanco, come può esserlo la natura umana dopo il lavoro. «L’uomo
esce all’opera sua e al suo lavoro fino alla sera» (Salmo 104:23);
quindi il sonno lui è dato, per ridornargli le forze per compiere il
suo servizio nel giorno successivo; e Gesù provò tutto ciò, Egli
dormì su un guanciale nella barca. In Giovanni pure Egli è stanco,
affamato ed assetato; siede sul pozzo come un viaggiatore affaticato,
aspettando i discepoli che erano andati a comprar cibo nel vicino
villaggio. Ma quando essi arrivano, trovano che il loro Maestro s’era
già rifocillato e riposato; e ciò senza mangiare, senza bere senza
dormire. La sua stanchezza aveva trovato un conforto che il sonno non
può dare; Egli si sentiva felice per il frutto che aveva portato il
Suo lavoro nell’anima d’una povera peccatrice. La donna fu
rimandata nella libertà della salvezza di Dio. Ma in Marco 4 non
essendovi una Samaritana come in Giovanni, Egli si riposa dalla Sua
stanchezza sul guanciale.
Come
tutto questo è vero e si può capire da noi! In Giovanni 4 il cuore
del Signore era allegro, per così dire; mentre in Marco 4 c’era
nulla che potesse rallegrarlo. La Scrittura dice (e la nostra
esperienza conferma queste parole) che «un cuore allegro è un buon
rimedio, ma uno spirito abbattuto fiacca le ossa» (Proverbi 17:22);
ed è perciò che il Signore in un caso poteva dire: «Io ho un cibo
da mangiare che voi non conoscete» e nell’altro usare un guanciale
provvisto da una sollecitudine attenta ai suoi bisogni.
Come
era perfetta in tutti i suoi particolari l’umanità che il Figlio
aveva rivestito! — Si può dire con certezza che era l’umanità a
noi comune, eccetto il peccato.
Non
contaminato dalla sozzura
In
tempi di confusione viene spesso la tentazione di rigettar tutto come
se non vi fosse più alcuna speranza, e di considerare come inutile e
senza scopo il distinguere le cose. Tutto è in disordine, si dice,
l’aposiasia s’è impadronita dei cuori; a che giova fare delle
distinzioni? Ma questo non fu il linguaggio del Signore: Egli si
trovò nella confusione
senza far parte di essa,
come innanzi abbiamo detto che era nel mondo
senza essere del mondo.
Egli incontrò ogni sorta di persone che appartenevano ad ogni sorta
di condizioni; schiere su schiere venivano compatte attorno a Lui, ma
Egli seguì sempre la via stretta della dirittura e della santità.
Le pretese dei Farisei, la mondanità degli Erodiani, la filosofia
dei Sadducei, l’incostanza della moltitudine, gli attacchi degli
avversari, l’ignoranza e la debolezza dei discepoli erano gli
elementi morali in mezzo ai quali Egli doveva passare la Sua vita
giornaliera.
Quindi
tanto lo stato delle cose, come il carattere delle persone,
esercitavano il cuor del Signore. Il denaro coniato da Cesare
circolava nella terra di Emmanuele; il muro che separava il Giudeo
dal Gentile era caduto in rovina; circonciso ed incirconciso, puro ed
impuro, tutto era confuso, a meno che l’arroganza religiosa vi
mettesse un ritegno secondo il suo modo particolare. Ma l’autorevole
parola di Gesù manifestò la perfezione del Suo contegno in mezzo a
tutto questo: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio».
Nell’epoca
della cattività di Babilonia, che fu pure un’epoca di confusione,
il Rimanente fedele si comportò lodevolmente facendo una distinzione
fra le cose che differivano, e non rigettandole come se non vi fosse
più stata speranza. Daniele era ben disposto a servir d’interprete
al re, ma non a mangiare il suo cibo; Neemia serviva volontieri nel
palazzo del Sovrano, ma non avrebbe potuto sopportare che il Moabita
o l’Ammonita entrassero nella casa di Dio; Mardocheo vegliava
diligentemente sulla vita del re Assuero, ma non voleva per nessun
conto inchinarsi per adorare Aman; Esdra e Zorobabel accettarono i
favori del re di Persia, ma rifiutarono l’aiuto dei Samaritani lor
nemici e condannarono il matrimonio coi Gentili; ed i poveri
prigionieri pregavano bene per la pace di Babilonia, ma non volevano
cantare i dolci cantici di Sion.
Tutto
ciò è magnifico, nobile ed elevato; ed il Signore, nei Suoi giorni,
fu perfetto anche
in questo carattere
del Rimanente.
Anche noi viviamo in un tempo dove la confusione non è inferiore a
quella v’era nei giorni della cattività d’Israele, o nei giorni
di Gesù; quindi anche noi siamo chiamati ad agire nella presente
scena, non come essendo senza speranza, ma col discernimento di saper
dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio. —
Ogni tratto della Sua bellezza morale diviene un modello per noi.
Ma
Lo vediamo inoltre come Dio di fronte al male, prendendo un posto che
certamente noi non potremo mai occupare. Egli toccò la lebbra, toccò
la bara che serviva per trasportare un morto, e ciò senza
contaminarsi, perché riguardava il peccato come lo riguarda Dio.
Egli conobbe il bene ed il male ed esercitò sempre una divina
supremazia su di essi, avendone una conoscenza divina. Se fosse stato
altrimenti, il contatto della bara del morto e del lebbroso, Lo
avrebbe contaminato, e Lo avrebbe obbligato d’abbandonare il campo
per essere purificato secondo l’ordinanza della legge; ma così non
fu di Lui. Egli non fu mai un Giudeo impuro; non solo non si è mai
contaminato, ma non poteva contaminarsi. Ecco il mistero della Sua
persona, che racchiude la perfezione dell’umanità unitamente alla
divinità; e la tentazione era tanto vera, come gli era impossibile
la contaminazione.
E
qui fermiamoci un momento. Di fronte a simili verità, le quali,
quantunque misteriose e profonde, ci sono però necessarie, il nostro
dovere più che di discuterle ed analizzarle, si è di accettarle con
vero cuore e di adorare Colui che ce le ha rivelate (*).
È consolante il vedere delle anime semplici che lasciano
l’impressione d’aver costantemente Cristo stesso davanti
agli occhi loro. Spesso noi c’intratteniamo sulle verità in tal
modo, che alla fine non ci resta se non un’amara convinzione che
noi non corriamo verso Lui; e ci accorgiamo allora che abbiamo
perduto il nostro tempo, errando sulla strada.
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(*) Prendo quest’occasione per dire che la morte di Gesù fu ciò che ha manifestato perfettamente la Sua gloria morale, di cui io parlo (Filippesi 2). Naturalmente so ch’essa fu molto di più; ma fra le altra cose, fu anche questo.
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(*) Prendo quest’occasione per dire che la morte di Gesù fu ciò che ha manifestato perfettamente la Sua gloria morale, di cui io parlo (Filippesi 2). Naturalmente so ch’essa fu molto di più; ma fra le altra cose, fu anche questo.
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Il
Signore fu «povero, eppure arricchendo molti» — «non avendo
nulla, eppure possedendo ogni cosa»; e ciò si vide in Lui in un
modo affatto particolare. Egli accettò i soccorsi di alcune donne
pie che Lo sovvenivano con i loro beni, e nello stesso tempo provvide
ai bisogni di tutti coloro che Lo circondavano, come essendo il
padrone dei tesori della terra. Ei poteva nutrire le moltitudini in
un luogo deserto, e nello stesso tempo soffrire la fame, aspettando
il ritorno dei Suoi discepoli che erano andati a comprare del cibo.
Ciò vuol dire «aver nulla e possedere ogni cosa».
Ma
quantunque fosse così povero, così bisognoso e così esposto alle
sofferenze, non si scorge mai che abbia commesso la più piccola
bassezza. Ei non chiese giammai l’elemosina, benché non possedesse
un soldo; e quando ne abbisognò uno (Luca 20:20-26), non per sé, ma
per vedervi il conio, chiese che glielo si mostrasse. Quantunque
esposto a gravi pericoli, e minacciato nella propria vita, Egli
non fuggì mai,
ma si ritirava dal posto dove si trovava con cautela e dignità. Così
non si può trovare in tutta la Sua vita un sol atto che non convenga
a quella nobiltà di sentire e di operare, che continuamente Lo
distinse, quantunque la povertà ed i pericoli fossero la sua parte
quotidiana.
Chi
potrebbe darci l’esempio d’un uomo così perfetto, così
immacolato, così sensibile, così delicato, e così puro in tutti i
più minuti particolari della vita? — Paolo non ce lo diede; e
nessuno potrebbe darcelo, se non Gesù, il Dio fatto uomo. Le Sue
particolari virtù spiegate nelle circostanze ordinarie della vita
quotidiana, ci danno un’idea della maestà della Sua Persona. Per
mostrare dei tratti d’una si squisita particolarità in una
posizione sì comune, bisognava che fosse una persona singolare,
bisognava che fosse l’uomo divino, se posso così chiamarlo; e
Paolo, ripeto, non manifestò nulla di simile. È vero che ci fu in
lui una gran dignità ed un’elevatezza morale non comune; ma il suo
cammino non fu quello del Signore Gesù. Egli si trova in pericolo di
vita, e cerca protezione presso un suo nipote; altra volta è
perseguitato, minacciato, ed egli si lascia scendere dalle mura della
città in una cesta. Io non dico che elemosinasse o chiedesse denaro,
ma ammette d’averne ricevuto. Tacio che Paolo si sia dichiarato
Fariseo in quella assemblea mista di Farisei e Sadducei (Atti 23) per
cercare un appoggio nell’uditorio; e tacio pure come abbia parlato
al Sommo Sacerdote che lo giudicava, poiché una simile condotta era
manifestamente riprovevole; ma voglio soltanto alludere a quei casi
nei quali Paolo, senza essere immorale, o senza agire propriamente
male, si mostro di gran lunga al disotto di quella personale dignità
che caratterizza la via di Cristo. Nemmeno la cosidetta fuga in
Egitto, non può essere un’eccezione a questa regola, seguita
costantemente da Gesù, poiché quel viaggio fu intrapreso per
compiere le profezie, e sotto l’autorità d’un oracolo divino.
Tutto
ciò non è soltanto una gloria morale, ma è veramente una
meraviglia morale; — ed è prodigioso che la penna tenuta da un
uomo abbia mai potuto tracciare simili bellezze! La cosa non si può
spiegare diversamente, come fu già notato da altri, se non col dire
che in tutto questo si tratta della verità, di evidenti realtà; e
noi siamo costretti di riconoscere questa necessità benedetta.
Continuando
a discorrere su questo splendido soggetto, ci ritornano alla mente
quelle parole scritte ai Colossesi 4:6: «Il vostro parlare sia
sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete
rispondere a ciascuno»; e le nostre parole dovrebbero essere tali,
per far del bene agli altri, conferiscando la grazia a chi le
ascoltano. Tuttavia, questo ha luogo spesso quando esse contengano
ammonizione o rimprovero, od anche severità e fermezza; così sono
condite con sale. Se le nostre parole riuniscono quelle rare qualità
d’essere pronunziate con grazia e condite con sale, ci faranno
rendere testimonianza che noi sappiamo come si deve rispondere ad
ognuno.
Fra
tutte le altre forme di perfezione morale, il Signore Gesù illustrò
anche questa. Egli seppe come rispondere ad ogni suo interlocutore,
in modo da far del bene all’anima sua, sia che le Sue parole
fossero ascoltate, sia che si cercasse di evitarle; ma spesso avevano
del sale, e ne avevano molto. Perciò alle domande che gli venivano
fatte, Egli si proponeva non tanto di rispondere alla domanda stessa,
quanto di colpire la coscienza
e manifestare lo stato di colui che interrogava.
Nel
Suo silenzio, o meglio nel rifiutarsi affatto di rispondere, quando
si trovò innanzi ai Giudei ed ai Gentili alla fine della Sua
carriera, sia di fronte ai sacerdoti come alla presenza di Pilato e
di Erode, vi scorgiamo lo stesso contegno perfettamente conveniente,
come abbiamo visto nelle Sue parole; testimoniando così, che tra i
figli degli uomini ve n’era almeno Uno il
quale sapeva discernere quando era «tempo per tacere» e quando era
«tempo per parlare».
In
tutto ciò il Signore Gesù presenta anche una grande varietà di
modi o di maniere, le quali tutte fan parte di quella fragranza che
saliva a Dio. Il Suo parlare ora era gentile, ed ora assumeva un
aspetto severo ed uno stile dottrinale; talvolta Egli si metteva a
ragionare volontieri, talvolta subitamente rimproverava; ed talvolta
agì con calma, pur ragionando su certi punti da cui appariva una
solenne condannazione, poiché era per il lato morale che
Egli riguardava e pesava tutto.
Il
capitolo 15 di Matteo mi ha colpito in un modo particolare, essenda
quello in cui si può meglio vedere questa perfezione in tutte le sue
svariate bellezze. Qui il Signore deve rispondere ai Farisei, alla
moltitudine, alla povera donna cananea, ai Suoi discepoli
ripetutamente, e mentre sono nel loro stato di ignoranza o di
egoismo; e noi vi possiamo scorgere il Suo differente stile con cui
rimprovera o ragiona, o mostra la calma, od insegna con pazienza,
oppure ancora cerca di attirare a Sé con grazia, con fedeltà e con
saggezza una povera anima che soffre. E nel leggere questi fatti noi
non possiamo fare a meno di sentire che tutte queste varietà sono
disposte per ordine secondo il richiedevano le circostanze.
Tale
fu pure la bellezza del contegno che tenne in Luca 2, ove né insegna,
né viene insegnato;
ma ci viene semplicemente detto che Egli era là ascoltando e facendo
domande. L’insegnare allora
non sarebbe stato a proposito, poiché era come un ragazzo in mezzo
ai suoi anziani; né il ricevere insegnamento
sarebbe stato in armonia colla pura e gloriosa luce che Egli era
conscio di portare in Sé, poiché noi possiamo dire di Lui che Egli
aveva più conoscenza di tutti i suoi maestri, e più saggezza dei
vecchi (Salmo 119:99-100). Non parlo qui di ciò che Egli era come
Dio, ma di Colui che era «pieno di sapienza», e che seppe usarla
secondo la perfezione della grazia. Ed è perciò che l’evangelista
non ce Lo presenta fra i dottori nel tempio, all’età di dodici
anni, né insegnando,
nè imparando;
ma ci dice semplicemente che era là ascoltando e facendo delle
domande. Parlando della Sua adolescenza, la Scrittura ci dice: «E il
bambino cresceva e si fortificava; era pieno di sapienza e la grazia
di Dio era su di lui»; e quando fu uomo compiuto, camminando
attraverso questo mondo, il Suo parlare fu sempre con grazia, condito
con sale, come Uno che seppe come si doveva rispondere ad ogni Suo
interlocutore. Quale armonia di perfezione e di bellezza ci fu mai
nei Suoi diversi stati di giovinezza e di età virile!
Ma
oltre a ciò, noi troviamo il Signore Gesù in varie altre
circostanze: — Talvolta Egli è sprezzato e schernito,
spiato ed odiato dai Suoi nemici, fino ad essere costretto di
ritirarsi per salvare la Sua vita dai loro tentativi e perfidi
proponimenti. Altre volte noi Lo scorgiamo che è debole,
seguito soltanto dai più poveri fra il popolo, spossato, affranto
dalla fame e dalla sete; e debitore di cure di alcune donne pie, le
quali sentono di dovergli ogni cosa. Ora Egli sta compiangendo
la moltitudine con
una bontà piena di tenerezza e di benevolenza; ed ora accompagna i
Suoi discepoli nelle loro refezioni o nei loro viaggi, conversando
con essi come un uomo farebbe con i suoi intimi amici. Qualche volta
Lo vediamo ancora, comparire sulla scena con potenza
ed onore,
operando miracoli e manifestando qualche raggio della Sua gloria; e
quantunque, sia nella Sua persona, sia nella Sua posizione, non
avesse nulla al mondo, ma fosse il figlio d’un falegname, senza
fortuna e senza istruzione, pure ottenne una tale agitazione tra gli
uomini (e persino sulle idee dei grandi della terra), che nessun
altro aveva ottenuta fino allora.
Ecco
come passò l’adolescenza, la virilità e la intera vita umana del
Signore Gesù!... — Oh se almeno il nostro cuore potesse
comprenderlo meglio e dargli il primo posto! — V’è una tale
perfezione nel tratteggiarne persino i minuti particolari, che ci
mostra l’intervento d’una mano divina. E quale mano, se non
quella guidata dallo Spirito Santo, avrebbe potuto dipingere il
quadro di certe circostanze sì delicate e sì importanti, se lo
Spirito Santo non avesse guidato la sua penna? — Chi, per esempio,
per assicurarci che il Signore non possedeva un denaro, avrebbe
parlato del tributo dovuto a Cesare, e della necessità per Gesù di
doverne chiedere uno agli astanti? — E come l’importante
questione del censo ci fa entrare nelle circostanze Suo speciali,
così vediamo che la bellezza morale delle Sue azioni scaturisce
dalla morale perfezione del Suo interno.
Nell’ora
del Getsemane Egli disse ai Suoi discepoli di vegliare
con Lui,
ma non di pregare
per Lui.
Trovandosi nel momento della distretta, Egli desiderava ed apprezzava
la simpatia dei Suoi compagni; ed avrebbe voluto che il loro cuore
fosse stato strettamente legato al Suo. Un tale desiderio emanava da
quella gloria morale della Sua perfetta umanità; ma nello stesso
tempo che sentiva ciò; Egli non chiese loro che stessero alla
presenza di Dio in Suo favore. Nella foga della Sua tenerezza ed
amore, Egli avrebbe voluto che essi si fossero dati a Lui, ma non
avrebbe preteso che essi si fossero dati per Lui a Dio: ecco perché
li richiese che vegliassero in Sua compagnia, e non domandò le loro
preghiere! È bensì vero che subito dopo unisce la preghiera al
vegliare, ma allora parla in vista dei loro bisogni:
«Vegliate e pregate», Egli dice, «per non cadere in tentazione».
Paolo poteva ben scrivere ai suoi fratelli: «Cooperate anche voi con
la preghiera [per noi]» (2 Corinzi 7:11). — «Pregate per noi;
infatti siamo convinti di avere una buona coscienza» (Ebrei 13:18);
questo però non fu il linguaggio di Gesù. Non è necessario che io
dica che non avrebbe potuto esserlo; ma tutto ciò dimostra che la
penna, la quale ci descrisse una simile vita e ci delineò un simile
carattere, fu guidata dallo Spirito di Dio; e che nessuno, se non lo
Spirito, avrebbe potuto scrivere così.
Gesù
fece del bene ed imprestò senza speranza di riavere; la Sua destra
non seppe mai cosa diede colla sinistra. Egli non sollevò mai delle
pretese né sulla persona, né sul servizio di coloro che Egli aveva
liberato o guarito; non riguardò mai il bene che operò come un
titolo all’altrui gratitudine, ma, senza pensare ad altro, Egli amò
delle persone umanamente spregevoli, guarì degli infermi cronici e
salvò dei peccatori perduti. Egli non permise che l’indemoniato
del paese dei Geraseni detto «Legione » lo seguitasse (Marco
5:18-19); guarì il fanciullo che era ai piedi del monte santo, e lo
restituì a suo padre (Luca 9:42); lasciò la figlia di Iairo nel
seno della sua famiglia; ridonò il figlio alla povera vedova di
Nain; e tutto ciò senza pretendere nulla da essi. Forse che Cristo
diede qualcosa affinché glielo si restituisse? Egli (il perfetto
Maestro!) non illustrò forse lo Sue proprie parole: «Fate del bene,
prestate senza sperarne nulla» (Luca 6:35). La natura della grazia è
di dare agli altri, e non di arricchire sé stessa; e Gesù venne,
affinché in Lui e nel Suo cammino la grazia potesse brillare in
tutto lo splendore della gloria e delle ricchezze che le
appartengono. Egli trovò dei servitori in questo mondo; ma non li
guarì per poi tenerli soggetti; anzi li chiamò e diede loro dei
doni. Essi erano il frutto dell’energia del Suo Spirito e delle
affezioni accese in cuori vinti dal Suo amore; e mandandoli a
predicare dice loro: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente
date» (Matteo 10:8).
Certamente
nei tratti d’un tale carattere vi sono delle cose superiori alla
concezione dello spirito umano; ed ognuno ama ripetersi colla mento
quegli aneddoti commoventi da cui fu penetrato, serbando un pensiero
di ammirazione per quelle cose che gli appaiono splendide, ma che non
sa spiegarsi. È consolante però aggiungere che alle volte questa
gloria morale del Signore Gesù brilla sotto la più semplice forma,
in modo che si rende intelligibile ad ogni sentimento e ad ogni
simpatia del cuore umano.
Parimenti
Egli non respinse mai la fede più debole, quantunque accettasse e
rispondesse con diletto alle questioni della più alta importanza. La
fede potente che gli si accostava con piena ed immediata certezza,
senza fare tante cerimonie, era sempre la benvenuta; mentre quelle
anime timide che si avvicinavano a Lui quasi con vergogna e come se
avessero voluto scusarsi, erano incoraggiate e benedette. Le Sue
labbra dileguavano in un istante quella nube che pesava sul cuore del
povero lebbroso; «Signore,» dice questi, «se vuoi, tu puoi
purificarmi». — «Lo voglio, sii purificato» rispose Gesù, e la
lebbra si diparti da lui. Subito dopo le stesse labbra mostrarono la
pienezza che c’era nel Suo cuore quando vide la testimonianza della
fede chiara ed esplicita che c’era nel centurione Gentile, e quando
la fede ferma e piena di zelo d’una famiglia in Israele scopre il
tetto della casa dove Egli era per scendere il suo ammalato dinanzi a
Lui.
Ogni
volta che s’indirizzò a Lui una fede debole, Egli concesse sempre
la benedizione richiesta, ma biasimò colui che la richiedeva in tal
modo. Però anche questo rimprovero è pieno di consolazione per noi,
poiché sembra voglia dire: «Perché non faceste uso di me con
maggior libertà e con una più grande felicità?» Se noi
valutassimo tanto il donatore quanto il dono ricevuto, il cuore di
Cristo come la Sua mano, questo rimprovero d’una
debole fede ci sarebbe così prezioso come lo fu la risposta che
diede ad essa.
E
se una fede debole venne così rimproverata, una fede robusta gli fu
molto gradita. Quindi possiamo farci un’idea quale graziosa vista
fosse per il Signore il vedere quella comitiva, già innanzi
menzionata, che scuopre il tetto della casa per avvicinarsi a Lui. Io
sono certo che fu proprio un grande spettacolo agli occhi del divino
e generoso Gesù; sono certo che il Suo
cuore fu
penetrato da una simile azione, come la
casa di Capernaum fu
penetrata da gli autori di essa.
Vediamo
nel nostro Redentore che la gloria è mista all’umiltà; e noi
abbiamo bisogno e dell’una e dell’altra. Colui che sedette sul
pozzo di Sichar è quello stesso che ora siede lassù nel cielo;
Colui che salì in alto è anche quello che scese nel più basso
della terra; in Lui c’è la dignità mista alla condiscendenza;
Egli è là che siede alla destra di Dio, mentre un giorno ora qui
chino verso terra per lavare i piedi dei Suoi discepoli. Quantunque
vestito della nostra povertà, non perdè nulla della Sua grandezza;
e benché fosse glorioso, immacolato e perfetto in Sé stesso, pure
non gli mancava niente per servirci.
L’egoismo
viene vinto dallo sforzo e dall’importunità, come leggiamo in Luca
11:8: «Io vi dico che se anche non si alzasse a darglieli perché
gli è amico, tuttavia, per la sua importunità, si alzerà e gli
darà tutti i pani che gli occorrono». Così avviene fra gli uomini,
ove l’egoismo predomina; ma non è così con Dio o con l’amore;
ed una prova di ciò l’abbiamo, appunto in Isaia 7, ove Dio è in
opposizione all’uomo presentatoci nel capitolo 11 di Luca. Là c’è
l’incredulità che stanca Dio rifiutandosi di chiedere una
benedizione e di riceverla col suggello d’una testimonianza
esteriore; in Luca invece è l’insistenza nel chiedere che stanca
l’egoismo e l’indifferenza dell’uomo. Qui c’è l’importunità;
in Isaia invece, ciò che stanca è, per così dire, la mancanza di
essa. E tutta questa divina bontà che vediamo nell’Eterno verso la
casa di Davide, si ripete nel Signore Gesù Cristo negli Evangeli e
nelle sue molteplici forme, sia nei riguardi d’una fede debole come
nei confronti d’una fede compiuta.
Tutte
queste cose che noi siamo capaci di scoprire, ci parlano delle Sue
perfezioni; ma in che piccola proporzione noi ci arriviamo a farlo!
Noi
sappiamo bene tutti in quanti modi diversi i nostri fratelli ci
provano e ci tentano, come, senza dubbio, noi facciamo verso loro; ed
ogni volta che ciò avviene, ci sembra sempre di vedere delle cattive
qualità in loro, dei pessimi difetti da rendere impossibile il
camminare insieme. Ma in tutto ciò, o per lo meno in gran parte, il
torto è sempre dalla nostra, poiché generalmente non usiamo verso
noi lo stesso discernimento che si usa nel giudicare qualcosa che è
riprovevole in loro.
Ma
il Signore Gesù non s’ingannò mai in tal moclo, né poteva
ingannarsi; quindi non fu mai «vinto dal male, » ma «vinse sempre
il male con il bene». — Egli vinse sempre il male che v’era nei
Suoi discepoli col bene che v’era in Lui. La vanità, il cattivo
carattere, l’indifferenza per gli altri ed ogni cura per loro
stessi, l’ignoranza che mostravano dopo tante fatiche per
istruirli, erano tutte cose in mezzo alle quali il Signore dovette
continuamente soffrire.
Il
Suo cammino quaggiù fu un tempo d’«irritazione» come lo furono i
quarant’anni nel deserto. Israele tentò l’Eterno di bel nuovo,
per così esprimersi; ma di bel nuovo esperimentò ciò che Egli era.
Consolante a dirsi: essi lo
provocarono e lo tentarono,
e per la loro provocazione, metterano
in evidenza ciò
che Egli era. Egli soffrì, ma lo fece con pazienza, e non gli
abbandonò mai; gli esortava, gli insegnava, li rimproverava e li
condannava, ma non si dipartiva da loro; anzi, alla fine del loro
cammino, Egli è più vicino che mai.
Come
è bello ed incoraggiante per noi tutto questo! — L’azione che
esercita il Signore sulla coscienza non offende mai il cuore; e non
si perde mai nulla dai Suoi rimproveri. Ed Egli, che non si allontana
da noi mentre mette in esercizio la nostra coscienza, è pronto a
ristorare le nostre anime, e far sì che i nostri cuori possano
godere di nuovo di quella beata libertà di cui si gode alla Sua
presenza.
Vorrei
notare inoltre che nel manifestare i diversi caratteri che durante il
Suo ministero fu chiamato a rivestire (fosse anche per un sol
momento), vi troviamo la stessa perfezione, la stessa gloria morale,
come nella Sua vita giornaliera. Vediamo ciò, per esempio quando
Egli appare come Giudice in Matteo 23, o come Avvocato in Matteo 12;
ma non faccio che indicare un tale soggetto, poiché il tema è
troppo vasto. Ogni passo, ogni parola ed ogni azione trae con se un
raggio di questa gloria; e l’occhio di Dio trovò maggior
soddisfazione nella vita di Gesù, di quello che avrebbe potuto avere
in una eternita d’innocenza adamitica. Fu nel mezzo della nostra
morale ruina che Gesù camminò; ed è da una simile posizione che
Egli fece salire a Dio un più ricco sacrificio di odor soave, di
quello che avrebbe potuto salire dall’Eden, e che l’Adamo
dell’Eden, fosse ben rimasto innocente per sempre, avrebbe potuto
offrire.
Continua nella 2a parte...